Usa, in carcere chi chiede asilo
Provvedimenti restrittivi provvisori per tutti i cittadini di origine araba: si deve dimostrare di essere realmente a rischio della libertà e della vita. Controlli al massimo livello nei luoghi pubblici. Sarà in particolare New York a pagare i costi (anche finanziari) dell'allarme «arancione»
FRANCO PANTARELLI

Tutti coloro che sono fuggiti dai paesi arabi e hanno chiesto asilo politico negli Stati Uniti sono da ieri in galera. Il provvedimento è «temporaneo», assicura Tom Ridge, il capo del dipartimento per la sicurezza interna, e serve ad evitare che potenziali terroristi o potenziali spie approfittino della «volontà americana di accettare rifugiati politici» per entrare negli Stati Uniti. La norma prevede che le autorità americane, prima di concedere l'asilo, controllino se davvero il richiedente rischia la libertà, o addirittura la vita, nel caso in cui ritornasse nel proprio paese. Prima, in attesa degli accertamenti si concedeva comunque un permesso provvisorio di soggiorno. Adesso, il soggiorno provvisorio sarà a carico del dipartimento della giustizia, ovvero in carcere, perché, come ha spiegato lo stesso Ridge, «vogliamo essere assolutamente sicuri, se uno è davvero chi dice di essere». Secondo i dati del servizio immigrazione le persone che hanno chiesto asilo politico provenienti dai paesi arabi sono 577, di cui 348 iracheni, che potrebbero essere oppositori del regime di Saddam Hussein ma potrebbero anche essere suoi agenti. La pratica riporta alla memoria le storie degli americani di origine giapponese internati nei campi di concentramento dopo l'attacco a Pearl Harbor (i pochi sopravvissuti ricevettero le scuse ufficiali e 25.000 dollari a testa dopo 40 anni) o quelli di origine italiana (per i quali non ci sono state né le scuse né i soldi). Allora, Franklin Delano Roosevelt, per evitare l'apertura di un «fronte interno» che poteva danneggiare le ragioni superiori della guerra, preferì non contrastare l'iniziativa del senatore John McCarthy, che più tardi avrebbe vissuto la sua grande stagione. Oggi non ci sono molte sottigliezze. Purtroppo, anche i media hanno diffuso la decisione degli arresti preventivi senza particolare rilievo, seppellendola negli elenchi delle tante misure previste dall'operazione «Liberty Shield» annunciata lunedì sera, un minuto dopo che Bush aveva lanciato il suo ultimatum a Saddam Hussein. Nel frattempo, si sono inasprite le misure di controllo negli aeroporti, nelle stazioni, intorno agli impianti nucleari e perfino intorno agli allevamenti di bestiame che, secondo il governo, i terroristi potrebbero prendere di mira con l'intento di contaminare quella carne di cui l'Unione Europea non permette l'importazione per via degli estrogeni (questo è uno dei tanti contenziosi attualmente in piedi fra Usa e Ue). Nei giorni scorsi era stata ventilata anche la possibilità di sospendere i voli civili in tutti gli Stati Uniti, come era avvenuto nei giorni immediatamente successivi all'11 settembre 2001. Ma a quanto pare si è poi deciso il contrario dopo che le compagnie aeree hanno fatto presente che per loro sarebbe stato il colpo di grazia verso la bancarotta. Già così, hanno spiegato le compagnie, la bancaroitta è difficilmente evitabile. Soltanto a causa della paura di volare, che si impadronirà degli americani dopo l'attacco all'Iraq, è stato calcolato che gli aerei semivuoti sulla rotte dall'Atlantico al Pacifico procureranno enormi perdite e il licenziamento di almeno 70.000 dipendenti. L'allarme «arancione» comporta inoltre il controllo accurato delle automobili che attraversano i tunnel e i ponti, il che significa moltiplicare per quattro il tempo necessario per l'attraversamento e un rallentamento generale delle attività che in qualche modo dipendono dagli spostamenti della gente. New York resta il centro nevralgico, un po' perché è qui che tutto questo è cominciato, con l'attacco alle Torri Gemelle, e un po' perché la città è considerata quella con il maggior numero di possibili obiettivi «economici» o semplicemente «simbolici», nonché quella particolarmente vulnerabile per via del suo enorme affollamento. Ma questa particolare pericolosità di New York non concide, stranamente, con altrettanta particolare attenzione da parte della Casa Bianca. Il sindaco Michael Bloomberg ha messo a punto un «piano di difesa» che comporta l'impiego di un maggior numero di poliziotti e il controllo 24 ore su 24 di un numero enorme di palazzi e di «landmark» in genere, anche attraverso accordi con le società private. Il piano si chiama «Atlas» e costerà 5 milioni di dollari a settimana che al momento nessuno sa dove prendere, vista la ferita di 3 miliardi e mezzo di dollari nei bilanci creata da Rudolph Giuliani. Ieri Bloomberg è andato alla Casa Bianca sperando in un aiuto finanziario, ma quando ne è uscito le sole dichiarazioni che è stato in grado di fare sono state di carattere patriottico. Le chiacchiere non seguite dai fatti, commenta il New York Times, sono «il dato tipico di questa amministrazione».