il manifesto - 12 Marzo 2003
Profili africani narrati in bianco e nero
Dodici scrittori italiani raccontano l'impatto con i loro concittadini neri: «L'Africa secondo noi» un libro venduto per le strade, i cui ricavati vengono divisi tra gli ambulanti e le edizioni Arco
LUCA MALAVASI
Tutto è nato, in modo un po' improvviso, una domenica pomeriggio, quando Piersandro Pallavicini e Jadelin Mabiala Gangbo, entrambi della «scuderia» Feltrinelli, il primo con Madre nostra che sarai nei cieli (2002), il secondo con Rometta e Giuleo (2001), si mettono a sfogliare alcuni libri delle edizioni Arco di Milano, «quei libri colorati, gialli, neri, verdi che i senegalesi vendono per la strade». Li sfogliano, li leggono e scoprono che non sono niente male: sono perlopiù storie di immigrazione e storie della tradizione africana, storie in molti casi nate e vendute, letteralmente, per strada. E subito, e quasi inevitabilmente, un altro pensiero si affaccia, quello della necessità dell'«unione, per sentirsi tutti un po' meglio, e trovare dei punti in comune, un modo curioso per farla un po' in barba ai ruoli prestabiliti». Il risultato di questo incontro fra passioni personali, valutazioni estetiche e militanza culturale è L'Africa secondo noi, dove il pronome rimanda a una dozzina di «amici scrittori», da Angelo Ferracuti a Giulio Mozzi, da Aldo Nove a Enrico Palandri, da Tiziano Scarpa a Dario Voltolini che, contattati da Pallavicini e Gangbo, hanno risposto immediatamente a un invito semplice: scrivere d'Africa e di africani. Ma il progetto iniziale trova soprattutto nelle modalità distributive la sua piena realizzazione, visto che il libro, uscito nel dicembre scorso con una tiratura, già esaurita, di cinquemila copie, viene venduto solo per strada (per ora quelle del Nord Italia), a 6 euro e 20, di cui metà va agli ambulanti (quasi tutti senegalesi) e metà alle edizioni Arco (gli autori hanno rinunciato a essere pagati). Non per questo, tuttavia, ha il sapore della raccolta svogliata o improvvisata: oltre a essere un'operazione culturale inedita, è anche, in fondo, un buon libro di racconti. Dove il «noi» degli scrittori introduce a parlare una costellazione di personaggi - spesso «tipi» dell'Italia contemporanea - posti di fronte alla presenza di «quei pezzi d'Africa teletrasportati nel nostro paese». E dove, racconto dopo racconto, si disegna un insieme di temi e di figure ricorrenti che ha, tra l'altro, il fascino dell'affresco esaustivo di un momento storico e di un paese a confronto con quello che, alternativamente, è un problema da risolvere, una realtà da affrontare, un cambiamento da assecondare, anche per gli scrittori stessi.

Non a caso, in apertura al volume, il racconto di Enrico Palandri (Il dizionario di Magatte Wade) è dedicato alla difficoltà di mettere in scena l'«africanità» nostrana; e dei possibili squarci narrativi su una cultura intrisa, fra le altre cose, di uno spirito magico di cui noi sembriamo aver perduto memoria, dà un bel saggio Angelo Ferracuti nell'Angelo nero, storia di un muratore africano morto sul lavoro e abbandonato in una discarica dal suo «padrone» bianco, cui riesce infine, da «quassù dove scorgo i cantieri aperti e i corpi dei miei compagni», a infliggere una punizione esemplare. Nonostante il tono sospeso, il racconto presenta con toni aspri la realtà lavorativa di molti immigrati ma, soprattutto, uno dei principali «secondo noi» che attraversano il libro come esatta riproduzione di un pensiero diffuso. È il «secondo noi» dell'italiano medio introdotto a parlare anche in Io e Michele da Giulio Mozzi, un io/noi che vota An ma che è orgoglioso di farsi vedere in giro e di pranzare con il nero Michele che, sotto sotto, gli somiglia.

Dall'altra parte (politica), ci sono i personaggi della festa dell'Occhio di Valerio Aiolli, in cerchio con Youssou mentre Maria Vittoria suona l'arpa birmana. Tutti si abbandonano - narratore compreso - alla magia del suono e al lirismo della situazione. Solo Youssou resta vigile, con il suo unico occhio ben aperto (l'altro fasciato da una benda), come un totem pietrificato, con il corpo fattosi «di legno, una scheggia levigata di, diciamo, ebano, puro supporto per quel suo immenso occhio», supporto per la magia di un'epifania inafferrabile, malintesa dalla politica e dall'esotismo turistico. Un po' la stessa di cui racconta anche Pallavicini (Poi rimaniamo definitivamente al buio): di nuovo una festa (sembra di essere in un racconto di Ellis), ma il nero, questa volta, è una superficie di carne percorsa da una sensualità diversa, la promessa di una cecità miracolosa e di un abbandono dei sensi. Alla fine, però, non resta che l'intermittenza della luce, e del desiderio.

Ben altro tono hanno i racconti di Nove e Montanari. Il primo, in Italian 2002 fast-food cut-up, dove il titolo rimanda al contenuto del testo (l'Italia di oggi), al suo contesto di scrittura (voci rubate in un fast-food) e alla tecnica narrativa (di burrougsiana memoria), rappresenta l'Africa come una fastidiosa escrescenza del tempo dei «cibi veloci» e un giocattolo politico. Una realtà fatta di «luoghi comuni» ma posta ai margini della comunità: e così, genialmente, tre quarti del racconto sono dedicati alla descrizione rapita delle prestazioni della Bmw Z8 acquistata con un mutuo decennale dal protagonista della storia, e all'analisi del curriculum di una ex velina. Come a dire: tutti hanno diritto a una biografia, perfino le macchine, ma non «i negri e gli albanesi». Un po' come accade in Beati gli ultimi di Raul Montanari, dove i toni comuni del discorso razzistico si precisano e si ampliano, fino ad assumere le proporzioni insopportabili dell'iperbole, pur senza abbandonare un regime realista. Con, in più, una spiazzante sorpresa finale, dove il gioco dei punti di vista (il bianco sul nero), appare rovesciato. Al contrario di quanto accade nel Fastidio (testo teatrale) di Jadelin Mabiala Gangbo, dove, come in certi atti unici di Pinter, la voce del padrone è un ordine gridato fuori campo a un personaggio seduto in bilico fra il processo e la confessione. Bianco e nero: «Perché non mostri il bianco?», chiede B alla ragazza nera scappata dall'Africa. Mostra il bianco e «guardati intorno, i passeggeri: cominci a dargli fastidio». Gira le mani: «ora bianche, ora nere. Bianche, nere... niente! È una miserabile proiezione dell'intelletto».

E Mani bianche è anche il titolo del racconto di Simona Vinci, dove però il contrasto sintetizza il miracolo del desiderio amoroso, mentre in Pelle bianca, pelle nera Laura Pariani fa dialogare a distanza, in un parco, una ragazza argentina, Adriana, e un ragazzo africano, Amadou, ossia due diversi modi di essere extracomunitari, regolare e clandestino. Si abbracciano con lo sguardo e sottoscrivono un'alleanza segreta fondata su una somiglianza che, altrove, sarebbe inammissibile. E che non esiste per la polizia: arriva, vede Amadou, i documenti non sono in regola, lo arresta. Adriana protesta, inutilmente. Poi se ne va, barcollando, «e improvvisamente si sente sorella del ragazzo nero: esclusa, avvolta dall'ombra. E ha male». Forse, nella domenica pomeriggio in cui è nato L'Africa secondo noi, era soprattutto questa dolorosa fratellanza a chiedere di potersi esprimere.