il manifesto - 19 Dicembre 2002
La convenzione dimenticata
Ieri era la giornata dei lavoratori migranti. I loro diritti? In un cassetto
CINZIA GUBBINI
ROMA
La storia della «Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti dei lavoratori migranti e delle loro famiglie», adottata dall'Assemblea generale dell'Onu nel lontano 18 dicembre 1990 - e di cui ieri si festeggiava il dodicesimo anniversario - è la storia di un «piccolo» scandalo. E come tutti i piccoli scandali, è una storia emblematica. La convenzione mira a definire esplicitamente il rispetto dei diritti umani delle persone che emigrano per lavorare all'estero. Cioè 175 milioni di esseri umani, secondo una stima che le Nazioni unite hanno diffuso ieri. Eppure la convenzione è entrata in vigore solo la settimana scorsa, grazie alla ratifica del ventesimo paese: Timor est. E ancora: scorrendo la lista dei venti paesi che hanno deciso per la ratifica, e degli altri undici che hanno deciso per la sola firma, c'è da ridere (o piangere). Si tratta, infatti, esclusivamente di paesi impoveriti - se si fa eccezione per l'arcipelago delle Seychelles - e di paesi, quindi, da cui partono gli emigranti (www.december18.net). Neanche un paese dell'Unione europea ha ratificato, o anche solo firmato, la convezione.

Eppure la convenzione, divisa in sei parti, è addirittura «moderata», come la definisce Manfred Bergman, esponente della Casa dei diritti sociali e che ha curato la traduzione dell'atto. Tra l'altro, grazie ai finanziamenti dell'Anno internazionale del volontariato, visto che in Italia non si è trovato neanche uno straccio di finanziamento per tradurre la convenzione. Insomma, non vi è un'accentuazione particolare delle disposizioni già esistenti sul rispetto dei diritti umani. Semmai, considera esplicitamente l'esistenza di determinati diritti anche per i lavoratori irregolari, e questo spirito, effettivamente, un po' contrasta con l'orientamento generale dei paesi europei alle prese con la battaglia contro l'immigrazione «clandestina».

Ora, in occasione del dodicesimo anniversario dell'approvazione della convenzione in sede Onu, si è creato in Italia un «Comitato italiano per una campagna di informazione e sensibilizzazione sui diritti umani dei migranti», di cui fanno parte l'Organizzazione internazionale del lavoro, l'Organizzazione internazionale per le migrazioni, la Federazione delle Chiese evangeliche, la Fondazione Migrantes della Cei, la Caritas, la Casa dei diritti sociali- Focus, i sindacati confederali. Tra gli obiettivi, proprio quello di arrivare a una ratifica anche da parte dell'Italia, visto che i principi in essa contenuta non sono in contraddizione con la normativa vigente. Certo, come ha notato Giovanni Casadio, responsabile per l'immigrazione della Cgil, anche se le istanze contenute nella convenzione non censurano «frontalmente» la legge Bossi-Fini, creano delle contraddizioni interne. La nuova legge, infatti, «limita nei fatti diritti importanti». La convenzione, quindi, potrebbe essere uno strumento importante di agibilità politica per contrastare certe derive.

Ma perché il nostro paese non ha ancora deciso per la ratifica? Secondo Antonio Bandini, vicepresidente del Comitato interministeriale per i diritti umani, intervenuto a una tavola rotonda presso l'Oil, è certamente vero che la convenzione viene guardata con una certa riserva dai paesi occidentali, «ma non saprei spiegare esattamente il perché». C'è poi un secondo aspetto: la firma dell'Italia avrebbe potuto essere letta dagli altri stati dell'Unione come «una fuga in avanti».

Eppure, secondo le cifre diffuse ieri dall'Ires, organo della Cgil, i lavoratori migranti in Italia sono una realtà in forte crescita e sempre più stabile. Rimangono tuttavia dei problemi, non soltanto per quanto riguarda il lavoro al nero (nei servizi raggiunge il 70%), ma anche per la possibile ricaduta nella «clandestinità» dei lavoratori stranieri, che non riescono a farsi dichiarare dal datore di lavoro e quindi rimangono in Italia con un lavoro sicuro, ma senza documenti.