il manifesto - 01 Dicembre 2002
Torino, cronaca di una visita blindata
Durante il corteo una delegazione di manifestanti è stata ammessa nel Cpt di corso Brunelleschi. Ci sono reclusi decine di stranieri in attesa di espulsione, ma parlarci è stato quasi impossibile
EZIO VALLAROLO
TORINO
«Sia chiara una cosa: questa visita si svolgerà in condizioni di sicurezza». Vietato, di conseguenza, qualsiasi «contatto» con gli immigrati ospiti della struttura. Con questa premessa è iniziata, poco dopo le 17 di ieri pomeriggio, la visita concordata al Centro di permanenza temporanea (Cpt) di corso Brunelleschi a Torino. Visto dall'interno, il centro nato nel 1998 e ricavato da un'ex caserma, mantiene inalterata l'atmosfera militare. Il muro di cinta, alto oltre sei metri, attutisce appena i suoni e i cori provenienti dalle migliaia di persone - alla fine saranno oltre trentamila - che sfilano contro Cpt e la nuova legge sull'immigrazione, la famigerata Bossi-Fini. A fare gli «onori di casa» è il comandante della Croce Rossa militare che ha in gestione la struttura. «Il centro - spiega l'attempato ufficiale - è suddiviso in tre aree distinte. All'interno di ogni area sono allestiti quattro moduli abitativi. Ciascun modulo è attrezzato da un minimo di sei ad un massimo di otto posti letto». A pieno regime il Cpt di corso Brunelleschi può ospitare quindi un'ottantina di immigrati privi di permesso di soggiorno, la maggioranza provenienti dalle strutture carcerarie ed in attesa di essere espulsi.

Mediamente gli «ospit»i sono 54. «E' normale - continua l'esponente della Croce Rossa - che il numero degli immigrati qui accolti sia variabile. La permanenza all'interno del centro in media è di 13-14 giorni, anche se la legge stabilisce un massimo di 60 giorni». A questo punto un giovane appartenente alla delegazione non si trattiene e chiede «ma lei è d'accordo con una legge che nega i diritti delle persone?». La risposta dell'ufficiale della Croce Rossa è pronta e piccata: «Io garantisco i diritti degli immigrati. Se lei ritiene che la legge Bossi-Fini sia ingiusta non deve dirlo a me. Io sono tenuto solo ad applicarla». Il Cpt di corso Brunelleschi nell'ultimo anno ha ospitato circa 2000 persone, esattamente il doppio di quanto era avvenuto nei tre precedenti anni di attività. Un fiore all'occhiello per i sostenitori della Bossi-Fini.

Il tempo della visita, intanto, sta scorrendo veloce e allora si punta dritti verso le «aree» in cui gli immigrati sono rinchiusi: vere e proprie gabbie, con sbarre altissime, che contengono i container in cui i migranti sono costretti a passare le loro giornate in attesa di essere espulsi.

Le forze dell'ordine accompagnano la delegazione, si potrebbe dire la circondano e la indirizzano su un percorso obbligato. Finalmente si arriva a contatto con gli «ospiti» del Cpt. La polizia fa scudo tra la delegazione e i cittadini stranieri lì rinchiusi. Ma si riesce comunque a stabilire un contatto.

Prima con una certa diffidenza, molti sono coloro che chiedono di non essere fotografati, poi con maggiore disponibilità alcuni iniziano a parlare e a raccontarsi. «E' vero che riceviamo visite di avvocati - spiega un giovane immigrato algerino - peccato però che non abbiamo i soldi per pagarli e quindi non ci aiutano. L'unica cosa che ci passano gratuitamente sono le medicine». Se tra i farmaci che vengono somministrati vi siano anche dei tranquillanti non è dato sapere, ma è la stessa Croce Rossa ad ammettere che «sono frequenti i casi di autolesionismo tra gli ospiti del centro». In qualche modo la situazione va tenuta sotto controllo.

Un giovane di origine rumena spiega di essere nel centro da sette giorni e che la Croce Rossa, in fondo, li sta trattando bene. «Ma ci danno solo una scheda telefonica ogni sette giorni, carica con 2 euro e 50. A chi possiamo telefonare con così pochi soldi?». «Anche voi italiani - sottolinea - dopo la guerra siete stati costretti ad emigrare. Noi oggi siamo come voi allora». Tutti poi si danno da fare per spiegarci il caso di Jeni, un marocchinino entrato in Italia con il visto turistico e rinchiuso da oltre un mese nel centro. Il giovane parla sia l'inglese sia il francese, ma non l'italiano. «Lui non voleva restare qui per lavorare - spiegano gli altri che la nostra lingua la conoscono - ma solo come turista. Non gli hanno voluto rinnovare il visto perché dicevano che non era qui per turismo. Ma non è vero: a casa sua ha una farmacia. Non è giusto trattenerlo in questo posto».

La polizia freme e spiega che il tempo della visita è scaduto, tocca ad un'altra delegazione. Mentre veniamo accompagnati all'uscita non ci abbandona la sensazione che ancora molte cose ci sarebbero da vedere, molte da capire e discutere.