il manifesto - 30 Novembre 2002
Il rapporto con gli immigrati, ormai nodo cruciale europeo
Guerra santa con gli arabi di Anversa
Nessun incidente al funerale di Achrak. Ma la polizia arresta il leader della Lega araba europea, Abou Jahjah, accusato di violenza
ALBERTO D'ARGENZIO
BRUXELLES
nessun incidente ad Anversa. Questa la frase che rimbalzava ieri in tutti i notiziari della radio e televisione belga, a sottolineare una volta di più come in una situazione di estrema tensione razziale la normalità si elevi, per inerzia, a notizia del giorno. Il Belgio tirava così un sospiro di sollievo guardando al funerale di Mohamed Achrak, il 27enne di origine marocchina, professore di religione, ammazzato martedí pomeriggio da un vicino, un omicidio che al di là dei trascorsi psicologici dell'autore assume il contorno nitido dell'esecuzione per odio razziale e che per questo aveva portato oltre 200 giovani di origine araba a manifestare per le vie del quartiere periferico di Borgerhout martedì e mercoledì. Cortei che terminavano in ore di scontro con le forze dell'ordine. Il Belgio tira però un doppio sospiro di sollievo visto che la giornata di ieri si era aperta con la notizia dell'arresto di Abou Jahjah, leader della Lea, la Lega araba europea. I giudici di Anversa, nel giorno del funerale di Mohamed, decidevano di gettare ancora più benzina sul fuoco, un'iniziativa presa con la totale benedizione del governo, volenteroso di mostrare la mano dura ad appena due mesi dalle elezioni politiche anticipate previste per gennaio. Abou Jahjah veniva fermato nella notte di giovedì, il suo appartamento e la sede della Lea perquisiti, a queste iniziative si aggiungono i 90 arresti (tra fermi amministrativi di 12 ore e giudiziari di almeno 24 ore) di giovani di origine araba attuati tra martedì e ieri. Prende corpo così la strategia di «tolleranza zero», lanciata dal prefetto di Anversa e dal sindaco, la socialista Leona Detiège, sotto l'approvazione del ministro degli interni, il liberale Antoine Duquesne. Jahjah finisce in carcere per «ribellione in gruppo con premeditazione, intralcio della circolazione, saccheggio di veicoli in gruppo, colpi e ferite ad agenti». In sostanza la fotografia, ad un solo fuoco, degli scontri di 4 giorni fa, ma l'azione legale contro il leader della Lea e l'intera associazione ha una genesi un po' più lontana. Le indagini iniziano il 18 novembre quando la stessa Lea organizza le prime ronde per controllare l'operato della polizia, accusata, non senza ragione, di attitudine razzista. L'iniziativa non piace da subito al governo arcobaleno (socialisti, liberali e verdi), che la tacciano di anticostituzionalità, ma non piace nemmeno a molte organizzazioni arabe che, pur senza ignorare il problema del razzismo, accusano la Lea di fare con la sua aggressività il gioco di chi, e sono molti, non vuole vedere gli stranieri integrati nel tessuto sociale di Anversa.

Il punto che sembra sfuggire alle istituzioni della città fiamminga, come all'intera classe politica belga, è proprio quello dell'articolazione di un tessuto sociale basato sulla convivenza, ora il Belgio istituzionale reagisce al morto con la negazione del problema, una tesi articolata con la logica stringente del capro espiatorio: la Lea ed il fondamentalismo islamico che cresce in casa. Eppure non bisogna dimenticare che ad Anversa un cittadino su tre sceglie il Vlaams Block, il partito di estrema destra xenofobo divenuto in appena 15 anni di storia il più votato della città. «Jahjah non è la causa del problema - sottolinea Jos Vander Velpen, avvocato di Anversa ed esperto dell'estrema destra locale - le cause sono conosciute da tempo. Il razzismo, la discriminazione ed il Vlaams Block esistono da anni ma sono problemi mai affrontati. Non mi piace Abou Jahjah perché non mi piace il pensiero etnico e non possiamo dimenticare che il Vlaams Block è diventato il primo partito esattamente perché è il campione del pensiero etnico. Jahjah si profila come l'avversario del Block ma poi attua nello stesso modo». «Però interdire le ronde della Lea - accusa Jos Vander Velpen - vuol dire attuare solamente con il metodo repressivo e schivare i problemi reali: la segregazione dei giovani stranieri nelle scuole e nell'accesso al lavoro».

In questo spettacolo desolante brillano le parole pronunciate dal fratello minore di Mohamed, Satif, durante la cerimonia funebre di ieri, celebrata in un centro sportivo per poter accogliere oltre 3.000 persone. Parole per il sindaco ed il prefetto, presenti al funerale, a cui Satif chiedeva «di perdonare i giovani marocchini vittime dei loro stessi atti». Parole per condividere con gli amici la tristezza e le rabbia, ricordando però loro che «mio fratello non avrebbe mai voluto che altra violenza si sommasse a quella già versata». E parole un po' per tutti, per «imparare a vivere assieme, per imparare a conoscerci». Infine l'imam lanciava due appelli, uno alla calma, ricordando ai giovani «che l'islam è una religione opposta all'odio», ed uno diretto alle forze politiche belghe «applicate con rigore le leggi contro il razzismo e la xenofobia». Anche in questo caso sarebbe la normalità a fare notizia.