il manifesto - 28 Novembre 2002
La Cina che non si vede
Non è uno degli stati dell'impero del Male, ma non è neanche arruolato nel regno del Bene. E' un mito per lo sviluppo a costi ridotti e una minaccia per la concorrenza a prezzi stracciati. Come «nazione» è un successo. Tappezzato di disastri sociali e umani
EDOARDA MASI
Il partito comunista cinese ha tenuto il suo congresso, ma l'evento non arriva a suscitare grande interesse. In un contesto oggi che si vuole «globalizzato» ma dove sono riconosciuti comuni solo gli interessi universali indifferenziati (sfera dell'ecologia, dei diritti umani, centralità dell'individuo astrattamente inteso) i viaggi che si moltiplicano facili da un continente all'altro e i consumi omologati nei luoghi diversi non impediscono il dilatarsi della distanza mentale fra gli abitanti delle diverse zone del pianeta, perfino quando vivono mescolati. L'ideologia dominante impone una logica duale semplificatoria: sfera del bene e sfera del male, stato e privato, liberismo-democrazia e totalitarismo, «pace sociale» e violenza, paesi ricchi e paesi poveri... Impossibile comprendere e interiorizzare la complessità dei rapporti umani e sociali; annullata la dialettica dei rapporti fra le classi e quella, più complessa, fra rapporti di classe interni e contesto internazionale.

Modello e minaccia

Più che mai sfugge a simili semplificazioni il continente cinese, da sempre refrattario a piegarsi alle valutazioni etnocentriche dell'Estremo Occidente. Nelle rappresentazioni mediatiche correnti, la Cina appare come un corpo compatto, riassunto nelle sue dirigenze: corpo degno di lode in economia grazie all'alto tasso di sviluppo e alle scelte sempre più liberistiche (fino alla trionfale entrata nel Wto e all'ingresso di manager capitalisti nel partito); meno, nella struttura politica ancora troppo autoritaria. Per un altro verso, la Cina è presentata, nella sua «crescita», ora come un possibile concorrente-antagonista dell'impero globale, ora come un volonteroso collaboratore all'espansione dell'impero; ora come un pericolo incombente, ora come una garanzia di stabilità (mi riferisco alla stampa internazionale, non a quella italiana, che su questi temi in generale è assente).

Per il comune consumatore europeo, la Cina è un venditore eccellente, a prezzi stracciati, di merci ben altrimenti costose se prodotte da noi localmente. Per lo stesso motivo è una minaccia per alcuni settori produttivi: da «paese povero» può permettersi di produrre a prezzi più che concorrenziali. A diversi settori del lavoro si presenta come un ricatto: la produzione può essere trasferita in quel paese (o, più o meno legalmente, fra immigrati da quel paese) a costi e condizioni più favorevoli per il capitale. Per chi ha capitali da investire, si presenta con una serie di dubbi: nonostante i forti profitti, sarà poi sicura quell'economia mezzo statale mezzo privatistica, con le banche in crisi e uno stato di agitazione crescente fra i lavoratori?

Ma infine: la Cina fa davvero parte della sfera del bene? Vi domina lo stato o il privato? Il totalitarismo o il liberismo? (e la democrazia?) La «pace sociale» o la violenza? È un paese sulla via della ricchezza o un paese povero? - niente da fare, le categorie ideologiche non funzionano. Meglio disinteressarsene, se non per qualche piacevole viaggio (che però non è più a così buon prezzo come un tempo), per gli acquisti convenienti e per qualche bel filmato in tv.



Contrasti cinesi

In realtà quella «Cina» corpo compatto non esiste. Come non esiste, in senso analogo, «l'Italia». Cinesi sono i politici, i burocrati, i banchieri, i manager, gli abitanti delle città e quelli delle campagne, i contadini, le donne, gli operai delle industrie statali, i licenziati, il «popolo migrante» impiegato nelle industrie private, il ceto medio, gli accademici, gli studenti, gli intellettuali, gli arricchiti... L'elenco potrebbe continuare. Importante è sapere che tutti costoro non sono riducibili a un corpo compatto. E conoscere i dati, i risultati della politica economica adottata dalla fazione vincente nel secondo trentennio della Repubblica popolare - con oscillazioni e varianti, ma fondamentalmente in opposizione a quella del primo trentennio (anch'essa con indirizzi non sempre univoci).

I termini della contrapposizione erano stati definiti con chiarezza nei dibattiti degli anni Sessanta e Settanta fra gruppi di studio di operai e studenti nelle zone industriali (Shanghai, Wuhan, Shenyang) da un lato, e dirigenti politici come Deng Xiaoping dall'altro. Quelle discussioni avevano espresso il grado di consapevolezza critica forse più alto raggiunto nel corso degli esperimenti socialisti. Ne risultava la contraddizione non conciliabile fra l'efficienza economica del sistema dove il lavoro è merce e le esigenze dei lavoratori quali soggetti protagonisti della produzione; l'incompatibilità fra un programma di «sviluppo» inteso come riproduzione allargata del capitale e l'assunzione primaria degli interessi (qui e subito) dei produttori, con il controllo e il governo, da parte loro, delle strutture economiche della società e del sistema politico (democrazia socialista).

La scelta degli ultimi trent'anni è stata a favore del sistema di controllo dettato dal capitale. Accompagnata da continui tentativi di ovviare con aggiustamenti empirici e interventi burocratici a quella contraddizione inconciliabile e a quella incompatibilità. Gli aggiustamenti diventano sempre meno possibili, a misura che il sistema sfugge dalle mani delle stesse dirigenze politiche, anche in seguito all'apertura via via più spinta al capitale (il «mercato») internazionale che impone con forza, anche giuridica, le sue leggi. Fino al presente paradosso di buoni risultati economici (secondo i parametri del pensiero dominante), dell'espandersi di un ceto medio favorevole all'orientamento in corso, e dello sfacelo della rimanente (e ben maggioritaria) società rurale e urbana.



Sans papiers

Caduta l'illusione, nei primi anni Ottanta, di un miglioramento del tenore di vita dei contadini in seguito alla redistribuzione delle terre alle famiglie e ad alcune misure di protezione adottate dal governo centrale, la sorte degli abitanti delle campagne (stragrande maggioranza della popolazione), specie lontano dalle zone costiere, si è andata deteriorando; come pure si deteriora la gestione del territorio e dei terreni coltivabili. Centinaia di milioni di espulsi dal lavoro son tornati a formare il «popolo migrante», spesso di sans papiers, che accampato ai margini delle città attende di essere impiegato dalle imprese private a condizioni infime di vita e di salario - «esercito di riserva» a ricatto dei lavoratori urbani già con garanzia d'impiego e di welfare, e oggi licenziati dalle imprese di stato e disoccupati a milioni, con sempre meno speranza di trovare nuovo impiego. Corruzione dilagante in alto e in basso fra i funzionari, favorita dal sistema misto pubblico-privatistico. Conflitti fra amministrazione centrale e province. Ritorno al vecchio arbitrio della sovratassazione illegalmente imposta ai contadini (fino al 50% del prodotto). Nel complesso, remunerazione del lavoro ai livelli più bassi del mondo, e arbitrio padronale crescente (gli stessi sindacati ufficiali - altri sono vietati - sono un'emanazione delle direzioni aziendali, anche private).



Le chiavi del successo

Sono propriamente queste le condizioni che consentono il successo economico della «nazione» Cina. Le stesse che ne fanno un gigante dai piedi di argilla. Le sia pur modeste toppe (sovvenzioni economiche e di welfare) che lo stato cerca via via di cucire, a freno della rivolta latente, gravano sul bilancio e contribuiscono alla crisi delle banche, dissestate anche da altri numerosi crediti inesigibili. Sono gli stessi fautori del «mercato» sulla stampa internazionale a rilevarlo: mentre si compiacciono dei successi, denunciano l'instabilità, ci forniscono ampie notizie sulle rivolte in atto - non più solo nelle campagne, ma fra i lavoratori urbani dei grandi centri industriali, in forma sempre più organizzata anche da provincia a provincia. e con embrionali risvolti politici. Da osservatori stranieri anch'essi nella contraddizione, sembrano a un tempo auspicare e temere una disintegrazione della struttura politica e sociale, analoga a quella dei paesi dell'Est europeo.

Anche in Cina negli ultimi decenni si sono dissolte le grandi identità collettive - coscientemente contrapposte le une alle altre negli anni dai cinquanta ai settanta. Il popolo è tornato a riconoscersi nei raggruppamenti minori o minimi, nell'eredità di aggregazioni antiquate e di vecchie e nuove superstizioni: ancora una volta «sabbia sparsa», come nei lontani anni venti lamentava un grande scrittore. Il coordinamento della protesta è ancora limitato, anche grazie alle misure repressive, e i suoi risvolti politici sono embrionali. La memoria del passato rivoluzionario recente è ancora offuscata dal ritorno a un passato più lontano. Eppure nulla è scontato. Se per un verso è divenuta inattuale l'alleanza progressista fra popolo oppresso e intellettuali riformatori, la cui stessa figura è in corso di estinzione, identità e rapporti inediti si vanno profilando, frutto anche della lunga e profonda trasformazione rivoluzionaria, e vengono immaginati e praticati modi nuovi di «servire il popolo» (il vecchio motto confuciano sempre rinnovato), in una società vivacissima, tutt'altro che addormentata. Occorre attenzione a quanto cova sotto la superficie.

L'attenzione è difficile da suscitare nel nostro pubblico, fra il quale è caduto l'interesse per l'informazione che non sia universal-astratta, oppure legata a vicende particolari. Si è verificata una trasformazione non così lontana da quella avvenuta in Cina, rispetto a una trentina di anni fa. I confini geografici, religiosi, razziali («etnici») erano irrilevanti allora rispetto a quelli di classe. La fraternità fra e con gli oppressi al di là dei confini nazionali e continentali era per grandi masse di donne e uomini l'esito di oltre un secolo di storia e agiva come una forza della natura. Era anche assimilata la nozione che nulla di quanto avviene in altre parti del mondo è estraneo o indifferente agli eventi e agli interessi molteplici e contrastanti di casa nostra. Si è perduta la coscienza dell'identità fondata su basilari interessi comuni e contro altri opposti interessi, indipendente da collocazioni continentali, nazionali, regionali. Il crollo delle società postrivoluzionarie e le pesanti sconfitte dei movimenti socialisti hanno portato con sé la cancellazione di un'eredità di conoscenze, fra le quali la nozione elementare della complementarità-polarità di capitale e lavoro. È questa una delle vittorie più schiaccianti del pensiero unico, dove la grande ideologia imposta dalla ricolonizzazione e dalla nuova colonizzazione è riuscita a penetrare anche nelle menti di chi vorrebbe opporsi.

È il seme della divisione che, sotto la parvenza della difesa indifferenziata dell'individuo e del rispetto del «diverso», ha dissolto l'appello all'unità necessaria di tutti quelli che vivono del proprio lavoro - comunque li si voglia chiamare - contro il comando del capitale (non solo sotto la sua ultima etichetta neoliberista). È possibile che la ricostruzione faticosa e necessaria delle coordinate mentali per la riunificazione della resistenza popolare nei diversi luoghi della terra giunga in Europa da altri continenti.